Dike

Adelphi Edizioni spa
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La parola díkē, comunemente tradotta con «giustizia», nasce in un contesto religioso e poi giuridico, ma ha in realtà un significato più profondo, che compare per la prima volta nella più antica testimonianza del pensiero filosofico: il frammento di Anassimandro. Si può dire che l'avvento della filosofia coincida con l'avvento di tale significato – quello che Aristotele chiama «il principio più stabile». Díkē designa l’incondizionata stabilità del sapere. E richiede la stabilità incondizionata dell'essere. Riguarda tutto ciò che l'uomo può pensare e può fare. In rapporto con essa si svolge l'intera storia dell'Occidente. Se nel Giogo Severino aveva puntato l'attenzione sulla conseguenza decisiva per l'uomo della tradizione occidentale, resa esplicita da Eschilo, ovvero che l'incondizionata stabilità del sapere e dell'essere è il «vero» rimedio contro il dolore e la morte, e sul rapporto tra Eschilo e Anassimandro, in questa sua nuova opera si volge invece verso le radici di quel significato. Soprattutto perché díkē e l’Occidente, che ne è dominato, sfigurano il volto della stabilità autentica: il volto del destino della verità. Affrontando il rapporto tra il puro volto del destino e il suo volto sfigurato da díkē, questo libro compie alcuni passi avanti rispetto agli scritti precedenti, da cui pure trae origine. Se comune e già più volte evidenziato è il punto di partenza – la sconvolgente rivelazione della struttura originaria del destino e il suo implicare l'eternità di ogni essente e la necessità del farsi innanzi della terra –, "Dike" rappresenta un'altra via accanto a quella indicata fin dall'inizio dal filosofo per raggiungere il medesimo risultato: l’eternità degli essenti.

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