Nel 399 a.C. Socrate fu trascinato in tribunale in unâAtene prostrata e inquieta. Il trentennale conflitto contro gli Spartani si era da poco concluso con unâamara e umiliante sconfitta: le mura della città erano state demolite, la sua prestigiosa flotta navale smantellata. La comunità era stata dilaniata dalla guerra civile: alti erano stati i costi in termini di relazioni personali. Con un decreto si impose di consegnare a un completo oblio ogni male e sofferenza. Ma un decreto, per quanto autorevole, non poteva bastare, di per sÊ, a cancellare torti e dolore. à in questa singolare temperie che Socrate fu tradotto dinanzi a una giuria popolare, accusato di corrompere i giovani e di non credere agli dei della città . Insomma, di pensarla âdiversamenteâ, di mettere in discussione i valori su cui Atene si fondava, ma anche di indurre in altri il medesimo atteggiamento critico. In quel momento di grande fragilità , quei discorsi erano forse piÚ di quanto si potesse tollerare. Davanti ai giudici, Socrate si trovÃ˛ nella posizione di chi deve pronunciare unââapologiaâ del proprio operato. Ma il suo discorso non ebbe nulla a che vedere con quanto un imputato era solito dire. Decise di parlare senza tentare di manipolare a suo favore lâuditorio nÊ di edulcorare i fatti. Non chiese pietà . Unicamente in nome dellâalÊtheia, della âverità â, perchÊ solo su di essa si poteva fondare la forma compiuta della âgiustiziaâ. Ben sapendo il risultato che avrebbe ottenuto.